Newman anticipatore del Vaticano II? Un luogo comune da sfatare

È luogo comune che il card. Newman sia stato uno dei predecessori del Vaticano II, un anticipatore che suggerì un percorso di apertura che la Chiesa avrebbe poi perseguito quasi un secolo dopo la sua morte.

di Wanderer

È luogo comune che il cardinale Newman sia stato uno dei predecessori più rilevanti del Concilio Vaticano II, un anticipatore che suggerì un percorso di apertura che la Chiesa avrebbe poi perseguito quasi un secolo dopo la sua morte. Questa versione se la suonano e se la cantano, allo stesso modo, sia i progressisti sia i tradizionalisti. Gli uni applaudendo Newman, gli altri ripudiandolo o guardandolo con sospetto.

Henri Bremond

I sospetti degli integristi erano comprensibili durante i primi decenni del XX secolo. L’opera di Newman divenne infatti nota, nell’ambito francese e romano, attraverso Henri Bremond, che tra altri lavori su Newman pubblicò una selezione dei suoi scritti (Newman. La vie chrétienne, 1906) e una biografia psicologica (Newman. Essai de biographie psychologique, 1906). E Bremond era un ex gesuita, professore di Teilhard de Chardin e amico di Blondel e Tyrrell. Un modernista in tutto e per tutto.

Nel settembre di quest’anno, al Newman Symposium organizzato dal National Institute of Newman Studies of Pittsburgh, Klaus Arnold, professore presso l’Università di Meinz, ha fatto una presentazione molto interessante di una sua ricerca, negli archivi del Sant’Uffizio, riguardante gli anni della lotta di san Pio X contro il modernismo. Ebbene, da quella documentazione risulta chiaro che, sebbene Newman non fosse mai incorso in alcuna condanna per le sue convinzioni, e i suoi libri non fossero stati inclusi nell’Index, era sotto attenta osservazione a causa dell’immagine che Bremond aveva delineato di lui. In effetti, Bremond espose le proprie inclinazioni moderniste addossandole a Newman, tanto da dipingere l’immagine di un Newman o cattolico modernista o rimasto anglicano fino alla sua morte. In poche parole, Bermond si appropriò della figura di Newman a vantaggio della causa modernista e, sfortunatamente, alcuni settori più recalcitranti del tradizionalismo sono fedeli discepoli della versione di Bremond, perché credono a tutte le sue bugie senza prendersi il disturbo di leggere gli scritti di Newman.

Il card. John Henry Newman, beatificato da Benedetto XVI e canonizzato da Francesco.

Rivendicare Newman, come fanno gli attuali civilissimi progressisti, quale predecessore del Vaticano II è a mio avviso ingiusto. Ian Ker S.J., secondo me uno dei più grandi conoscitori di Newman, ha dedicato un libro esclusivamente al tema in questione (Newman on Vatican II, Oxford, 2014) e l’impressione che mi ha lasciato è che anch’egli tiri acqua al suo mulino, usando i testi di Newman che meglio si adattano alla sua tesi e lasciando da parte quelli che non lo fanno. Ciò non significa che Newman non abbia avuto idee che sono state anche formulate durante il Vaticano II, ma, a mio parere, non può essere considerato un “padre” del Concilio. Ad esempio, il ruolo e l’autonomia dei laici all’interno della Chiesa è una questione con la quale egli sempre combatté — e che gli procurò diverse antipatie, considerato il clericalismo regnante in quell’epoca –, ed è pur vero che il Vaticano II starnazza parecchio riguardo ai laici maturi i quali devono abbracciare il protagonismo nella Chiesa. In realtà, sappiamo tutti che non sono altro, appunto, che starnazzi: l’attuale clericalismo è ancora feroce come al tempo di Newman (chiedetelo a papa Francesco).

Voglio segnalare qui un fatto interessante. Uno dei primi libri del Newman cattolico è quello che viene conosciuto come Anglican difficulties. Va notato che è un libro pubblicato nel 1850 ed ebbe qualche riedizione mentre il Cardinale era ancora in vita, mentre l’unica edizione moderna, quella di Stanley Jaki, pubblicata nel 2004 da una piccola casa editrice del Kentucky, è passata completamente inosservata e non è nemmeno nota nei più prestigiosi cerchi newmaniani. Potrebbe sembrare una stranezza, ma in realtà non lo è. Quel libro, come Jaki sottolinea nell’introduzione, smonta infatti l’immagine del Newman progressista ed ecumenico che è stata fabbricata negli ultimi decenni e ci rivela il vero pensiero del cardinale sull’ecumenismo, senza tanti giri di parole.

Il libro riunisce dodici conferenze, che John Henry Newman tenne presso l’Oratorio di Londra tra il maggio e il giugno 1850, motivate da una dichiarazione della Chiesa d’Inghilterra che ammetteva che la dottrina sulla rigenerazione dell’anima mediante il battesimo fosse solo un’opinione e non una dottrina sostenuta ufficialmente (il caso Gorham). Questo fatto, che sollevò un polverone, ebbe come conseguenza la conversione alla Chiesa cattolica di Henry Manning, futuro cardinale arcivescovo di Westminster, Wilbeforce e Hope, tutti futuri esponenti di spicco del cattolicesimo inglese, così come lo erano stati in precedenza dell’anglicanesimo. Le conferenze di Newman affrontavano sostanzialmente due punti. Il primo: poiché l’unico e legittimo assunto che il Movimento di Oxford cercava era la comunione con Roma, allora tutti i suoi membri dovevano reagire alle misure non cattoliche della Chiesa anglicana. Il secondo: i difetti che Roma può avere non sono vere barriere nel cammino verso la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica.

Il card. Henry Edward Manning

Le conferenze ebbero molto successo, con un gran numero di ascoltatori, la maggior parte dei quali anglicani. E sebbene i modi di Newman fossero sicuramente misurati, è chiaro che si trattava di conferenze in cui metteva nero su bianco i suoi pensieri, che non erano poi così tanto ecumenici. La tesi che egli proponeva riguardo a Roma quale vera Chiesa implicava una sola alternativa per gli anglicani: o la conversione al cattolicesimo o l’ateismo. Come disse in seguito Manning: “È Roma, oppure la licenza del libero pensiero e del libero arbitrio”. E non si sbagliava. Basti vedere in che stato si trova oggi la Chiesa d’Inghilterra.

Ecco perché sorprendono le pretese dei newmanisti, se non newmaniani, di presentare Newman come un predecessore della nuova Chiesa inaugurata con il Vaticano II. Non mi sembra che il cardinale riconoscerebbe nella Chiesa cattolica contemporanea quella che conobbe poco più di un secolo fa quando, ad esempio, diceva: “La Chiesa cattolica, e solo la Chiesa cattolica, sostiene che sarebbe meglio che il sole e la luna cadessero dal cielo, che la terra collassasse e che i milioni di uomini che vi abitano morissero di fame in condizioni di estrema agonia, e le afflizioni temporanee aumentassero, piuttosto che una sola anima non dirò che si perda, ma commetta un solo peccato veniale, o menta deliberatamente…”.

Papa Francesco si scandalizza per la deforestazione e tuttavia protegge in Vaticano peccatori riconosciuti come Zanchetta e Ricca. L’opposto di quanto diceva Newman.

Dal momento che Newman era in grado di parlare pubblicamente in modo così chiaro contro le pretese di cattolicità della Chiesa d’Inghilterra, che non era abbastanza chiara riguardo alla dottrina del battesimo, non oso immaginare cosa direbbe oggi vedendo quella una volta era la sua Chiesa ordinare le donne come “sacerdoti” o “vescovi”. O meglio, so bene quello che direbbe: la Chiesa anglicana fa parte dell’establishment politico e prende le sue decisioni guidata dai dettami della politica e dell’opinione pubblica. Quindi, “è solo questione di tempo vedere fino a che punto la Chiesa anglicana conserverà alcune parti della Fede”, poiché essa è [siamo nel 1850!] “così radicalmente liberalizzata… da diventare una semplice nemica della Verità”. Queste stesse parole potrebbero valere per la Chiesa cattolica bergogliana?

È nota la sua espressione ne La Apologia:

“Ciò che la Sede di Roma era a quel tempo è ciò che è ora; quello che erano allora Ario, Nestorio o Eutiche, Lutero e Calvino lo sono ora; quello che erano allora gli Eusebiani e i Monofisiti, ora è la gerarchia anglicana”.

E tuttavia i newmanisti propongono Newman come il grande campione dell’ecumenismo e chiedono che, sotto la sua egida e ispirazione, si incontrino in fioriti dialoghi cattolici, anglicani, luterani e calvinisti. Intendiamoci: la dolorosissima conversione di Newman fu alimentata e decisa dalla sua convinzione che, se esisteva una Chiesa divinamente stabilita, gli uomini erano di conseguenza obbligati ad appartenere a quell’unica Chiesa. E questa è una profonda scorrettezza politica per le infuocate orecchie ecclesiali emerse dalle braci del Vaticano II.

Insomma, la paternità o qualsiasi altro tipo di parentela che si voglia trovare tra Newman e il Concilio Vaticano II deve essere provata tenendo conto di tutti i suoi scritti, comprese le Anglican difficulties.

(fonte: caminante-wanderer.com; traduzione: aldomariavalli.it)

Il Concilio Vaticano II e il Calvario della Chiesa

Il problema ermeneutico del Vaticano II è destinato a non finire se non affrontiamo un punto centrale e radicale da cui dipende la chiara comprensione delle dottrine e la loro valutazione magisteriale.

di P. Serafino M. Lanzetta (01-09-2021)

Si è riacceso di recente il dibattito sulla corretta interpretazione del Concilio Vaticano II[1]. È vero che ogni concilio porta con sé problemi interpretativi e molto spesso ne apre di nuovi anziché risolvere quelli prefissatisi. Il mistero porta sempre con sé una tensione tra il detto e l’indicibile. Basti rammentare che il problema della consustanzialità del Figlio con il Padre del Concilio di Nicea (325) contro Ario fu stabilita in modo inconcusso solo sessant’anni dopo con il I Concilio di Costantinopoli (385), quando fu definita anche la divinità dello Spirito Santo. Venendo a noi, dopo circa sessant’anni dal Concilio Vaticano II abbiamo non la chiarificazione di qualche dottrina di fede ma un ulteriore obnubilamento. La Dichiarazione di Abu Dhabi (4 febbraio 2019) stabilisce con tutta sicurezza che Dio vuole la pluralità delle religioni come vuole la diversità di colore, di sesso, di razza e di lingua. Al dire di Papa Francesco, sul volo di ritorno dopo la firma del documento, «dal punto di vista cattolico il documento non è andato di un millimetro oltre il Concilio Vaticano II». Certo si tratta più di un legame simbolico con lo spirito del Concilio che echeggia nel testo della Dichiarazione sulla Fratellanza Umana. Eppure un legame c’è e non è certamente l’unico con l’oggi ecclesiale. Segno che tra il Concilio di Nicea a il Vaticano II c’è una differenza che bisogna tener in considerazione.

Questo strano concilio, che bisogna sempre interpretare

L’ermeneutica della continuità e della riforma ci ha dato la speranza di poter leggere le dottrine nuove del Vaticano II in continuità con il magistero precedente in nome del principio secondo cui, un concilio, se celebrato con i dovuti crismi canonici, è assistito dallo Spirito Santo. E se l’ortodossia non la si vede la si ricerca. Intanto però già qui si pone un problema non secondario. Affidarsi all’ermeneutica per risolvere il problema della continuità è già un problema in se stesso. In claris non fit interpretatio, recita un noto adagio, per cui se la continuità non dovesse essere dimostrata con l’interpretazione non ci sarebbe bisogno dell’ermeneutica come tale. La continuità non è evidente, ma va dimostrata o piuttosto interpretata. Dal momento che si fa ricorso all’ermeneutica, ci si immette in un processo crescente di interpretazione della continuità, un processo coinvolgente che non si arresta. Finché ci saranno degli interpreti ci sarà anche il processo interpretativo e ci sarà la possibilità che tale interpretazione sia avvalorata o smentita perché adeguata o pregiudiziale agli occhi dell’interprete successivo.

L’ermeneutica è un processo, è il processo della modernità che pone l’uomo come esistente e lo coglie nel raggio dell’esserci qui ed ora. Eco di ciò è il problema del Concilio che prova a dialogare con la modernità che a sua volta è un processo esistenziale non facilmente risolvibile nei circoli ermeneutici. Se ci si affida solo all’ermeneutica per risolvere il problema della continuità si rischia di avvilupparsi in un sistema che pone la continuità come esistente (o da parte opposta la rottura), ma di fatto non la raggiunge. E non sembra che l’abbiamo raggiunta tutt’oggi, a quasi sessant’anni dal Vaticano II. C’è bisogno non di un’ermeneutica che ci dia la garanzia della continuità, ma di un principio primo che ci dica se l’ermeneutica utilizzata è valida o meno: la fede della Chiesa. Non meraviglia che a tanta distanza dal Vaticano II stiamo ancora disputando sull’ermeneutica della continuità di un concilio rispetto ai precedenti e rispetto alla fede della Chiesa, quando la stessa fede ci ha lasciato da molti anni a questa parte e non accenna per ora a ritornare.

L’ermeneutica della continuità lasciò avvertire qualche scricchiolio sin dall’inizio; più di recente sembra che lo stesso Joseph Ratzinger se ne sia alquanto distanziato. Infatti negli appunti di costui relativi alle radici degli abusi sessuali nella Chiesa (pubblicati in esclusiva per l’Italia dal Corriere della Sera, l’11 aprile 2019), si chiama in causa ripetute volte il Concilio Vaticano II. Con più libertà teologica e non in veste ufficiale, Benedetto XVI addita in una sorta di biblicismo promanante da Dei Verbum la radice dottrinale principale della crisi morale della Chiesa. Nella lotta ingaggiata al Concilio, si provò a liberarsi del fondamento naturale della morale per fondare quest’ultima esclusivamente sulla Bibbia. L’impianto della Costituzione sulla Divina Rivelazione – che non volle far cenno al ruolo della Traditio constitutiva, seppur imperato da Paolo VI – si rifletté nel dettato di Optatam totius 16, che di fatto venne poi declinato con il sospetto nei confronti di una morale presto definita “preconciliare”, spregiativamente identificata come manualistica perché giusnaturalista. Gli effetti negativi di tale riposizionamento non tardarono a farsi sentire e sono ancora sotto i nostri occhi attoniti. Nei medesimi appunti di Ratzinger si legge anche una denuncia della cosiddetta “conciliarità” ertasi come discrimen di ciò che era veramente accettabile e proponibile, fino a portare alcuni vescovi a rifiutare la tradizione cattolica. Nei vari documenti post-conciliari che hanno cercato di correggere il tiro, dando la giusta interpretazione della dottrina, non si è mai preso in seria considerazione questo problema teologico-fondamentale inaugurato dalla “conciliarità”, che difatti apre a tutti gli altri problemi e soprattutto diventa uno spirito libero che si aggira e che sporge sempre rispetto al testo e soprattutto rispetto alla Chiesa. Se ne parlò durante il Sinodo dei Vescovi del 1985, ma non si è mai concretizzato in una chiara presa di distanza.

Dottrine nuove, ma “pastorali

Il problema ermeneutico del Vaticano II è destinato a non finire se non affrontiamo un punto centrale e radicale da cui dipende la chiara comprensione delle dottrine e la loro valutazione magisteriale. Il Vaticano II si pone come concilio con un fine squisitamente pastorale. Tutti i concili precedenti sono stati pastorali nella misura in cui hanno affermato la verità della fede e hanno combattuto gli errori. Il Vaticano II per un fine pastorale sceglie un metodo nuovo, il metodo appunto pastorale che diventa un vero programma d’azione. Dichiarandolo a più riprese, ma senza mai dare una definizione di cosa intendesse per “pastorale”, il Vaticano II si pone così in modo nuovo rispetto agli altri concili. È il concilio pastorale che più di ogni altro ha proposto nuove dottrine, ma avendo scelto di non definire nuovi dogmi, né di reiterare in modo definitivo alcunché (forse la sacramentalità dell’Episcopato, ma non c’è unanimità). La pastoralità prevedeva un’assenza di condanne e una non definizione della fede, ma solo un modo nuovo di insegnarla per il tempo di oggi. Un modo nuovo che influì sulla formazione di dottrine nuove e viceversa. Un problema che avvertiamo con tutta la sua virulenza oggi, quando si preferisce lasciare la dottrina da parte per motivi pastorali, senza però poter fare a meno di insegnare un’altra dottrina.

Il metodo pastorale (si trattò di metodo) svolge un ruolo di prim’ordine in Concilio. Dirige l’agenda conciliare. Stabilisce ciò che è da essere discusso e di rifare alcuni schemi centrali perché poco pastorali; di tralasciare dottrine comuni (come ad esempio il limbo e l’insufficienza materiale delle Scritture, reiterata dal magistero ordinario dei catechismi) perché ancora disputate e di abbracciare e di insegnare dottrine nuovissime che non godevano di nessuna disputa teologica (come ad esempio la collegialità episcopale e la restaurazione del diaconato permanente uxorato). Addirittura la pastorale viene ad assurgere al rango di costituzione con Gaudium et spes (si era abituati a una costituzione che fosse tale in relazione alla fede), un documento così malmesso da far rizzare i capelli anche a K. Rahner, il quale consiglierà al Card. Döpfner di far dichiarare al testo fin dall’inizio la sua imperfezione. Ciò soprattutto per il fatto che l’ordine creato non appariva finalizzato a Dio. Eppure Rahner era il promotore di una pastorale trascendentale.

Così il Concilio poneva il problema di se stesso, della sua interpretazione, e ciò non a partire dalla fase ricettiva, ma sin dalle discussioni in aula conciliare. Capire il grado di qualificazione teologica delle dottrine conciliari fu impresa non facile agli stessi Padri che ripetutamente ne fecero richiesta alla Segreteria del Concilio. La pastoralità poi entra anche nella redazione del nuovo schema sulla Chiesa. Per molti Padri il mistero della Chiesa (aspetto invisibile) era più ampio del suo manifestarsi storico e gerarchico (aspetto visibile), e ciò fino al punto di ritenere una non co-estensività del Corpo mistico di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana. Due Chiese giustapposte? Una Chiesa di Cristo da un lato e la Chiesa Cattolica dall’altro? Questo rischio derivò non dal cambio verbale con il “subsistit in”, ma fondamentalmente dall’aver rinunciato alla dottrina dei membri della Chiesa (si passò dal de membris al de populo) per non offendere i protestanti, membri imperfetti. Oggi sembra che tutti più o meno appartengono alla Chiesa. Se formulassimo una domanda: «I Padri ritengono che il Corpo mistico di Cristo è la Chiesa Cattolica?», molti cosa risponderebbero? Diversi Padri conciliari risposero di no, per questo siamo dove siamo.    

Lo spirito del Concilio, regola relativa di una misura assoluta

Lo spirito del Concilio nasce dunque nel Concilio. Si libra per mezzo del Vaticano II e dei suo testi; è riflesso spesso di un spirito pastorale non chiaramente identificabile, che costruisce o demolisce in nome della conciliarità, cioè spesso del sentire teologico del momento che aveva più presa perché più forte la voce di chi parlava, non tanto attraverso i media, ma in aula e in Commissione dottrinale. Un’ermeneutica che non appura ciò finisce col prestare il fianco a un problema che si aggira tutt’oggi irrisolto: il Vaticano II come assoluto della fede, come identità del cristiano, come passe-partout nella Chiesa “post-conciliare”. La Chiesa è divisa perché dipende dal Concilio e non viceversa. Questo può generare poi un altro problema.

Prima il concilio come assoluto della fede e poi il papa come assoluto della Chiesa difatti sono due facce della stessa medaglia, dello stesso problema di assolutizzare ora l’uno ora l’altro, ma dimenticando che prima c’è la Chiesa, poi il papa con il suo magistero pontificio e poi un concilio con il suo magistero conciliare. Il problema di questi giorni di un papa visto come un assoluto nasce quale eco del concilio come ab-solutus e ciò per il fatto che uno spirito del concilio, cioè l’evento superiore ai testi e soprattutto al contesto, viene enfatizzato come criterio di misura chiave. È un caso che chi cerca di blindare il magistero di Francesco faccia continuo appello al Vaticano II, vedendo le ragioni delle critiche in un rifiuto del Vaticano II? Sta di fatto però che tra Francesco e il Vaticano II c’è piuttosto un legame simbolico e quasi mai testuale. I papi del Concilio e del post-concilio sono santi (o lo saranno presto) mentre la Chiesa langue, piombata in un silente deserto.


[1] Questo intervento è stato è pubblicato originariamente on-line, sul blog del vaticanista Aldo Maria Valli, Duc in Altum, il 13 luglio 2020.

resnovae.fr

I corti circuiti della libertà di religione

Nella concezione attuale della libertà di religione si notano almeno tre cortocircuiti che ingarbugliano il ragionamento e lo incartano dentro se stesso. Né la Dichiarazione Dignitatis humanae del Vaticano II né le precisazioni successive sul tema hanno chiuso la questione e fugato ogni perplessità. Il problema rimane ancora aperto e il Magistero dovrà intervenire ancora.

di Stefano Fontana (16-03-2021)

Il diritto alla libertà di religione è ormai acquisito nella Chiesa cattolica, al punto che viene ormai dato per scontato. Eppure prima del Concilio esso non veniva accettato. Credo che su questo punto l’ermeneutica della riforma nella continuità, indicataci da Benedetto XVI debba fare ancora qualche passo chiarificatore. Né la Dichiarazione Dignitatis humanae del Vaticano II né le precisazioni successive sul tema hanno chiuso la questione e fugato ogni perplessità. Il problema rimane ancora aperto e il Magistero dovrà intervenire ancora.

Nella concezione attuale della libertà di religione si notano almeno tre cortocircuiti che ingarbugliano il ragionamento e lo incartano dentro se stesso. Vediamoli brevemente.

Il primo riguarda la dignità della persona umana. A cominciare dalla Dignitatis humanae si dice che la libertà di religione è fondata sulla dignità della persona, che precederebbe ogni scelta religiosa, qualunque essa sia. È però chiaro che la dignità della persona non può avere il proprio fondamento ultimo in se stessa: l’uomo non si fonda sull’uomo. La dignità della persona ha il suo fondamento assoluto in Dio, anche sul piano naturale oltre che, naturalmente, su quello soprannaturale. Tolto di mezzo Dio, anche la dignità della persona viene perduta. E non un Dio qualsiasi, ma il Dio vero. Infatti tutte le altre religioni diverse dalla religio vera deturpano, più o meno, la natura umana, mentre solo il Dio vero – il Dio dal volto umano – ha rivelato l’uomo a se stesso. Allora ecco il cortocircuito: la libertà di religione si fonda sulla dignità umana, ma la dignità umana si fonda sull’Unico Dio vero. Come la mettiamo?

Il secondo riguarda i limiti della libertà di religione. La Dignitatis humanae individua questi limiti nel rispetto dell’ordine pubblico. L’autorità politica potrebbe quindi limitare la libertà di religione quando le pratiche religiose comportassero, per esempio, violazione dei diritti umani o della giustizia. Anche qui, però, vale la stessa domanda: su cosa si fonda l’ordine pubblico? Se esso si fonda sulla convenzione, o su quanto dice il potere, o sugli usi e costumi… sarebbe molto debole e incapace di fondare alcunché, essendo infondato esso stesso. Se invece esso di fonda sull’ordine naturale e finalistico della società umana allora rimanda a Dio. Ma non – ci si deve ripetere – a un Dio qualsiasi perché le altre religioni diverse da quella vera sono incapaci di fondare un ordine naturale e finalistico, come capita per esempio per l’Islam o per il Protestantesimo. Ecco allora il cortocircuito: la libertà di religione ha come limite l’ordine pubblico ma l’ordine pubblico ha bisogno dell’Unico vero Dio.

Il terzo cortocircuito riguarda il principio secondo cui nell’uomo c’è una religiosità naturale. La Dignitatis humanae parla di un dovere di cercare la verità. Questa religiosità naturale, espressione dell’essenza umana, fonderebbe la libertà di religione, ossia la libertà di ricerca del Fondamento ultimo. San Tommaso parlava, a questo proposito, della virtù di religione, da contrapporre all’incredulità. Ora, questa inclinazione naturale a Dio non deve intendersi come generica e vuota, diretta cioè ad un mondo del divino vagamente inteso, ma come un cammino tracciato dalla natura umana, finalisticamente orientato a quanto essa esige, svolto con l’uso della retta ragione. San Tommaso la considerava una “virtù” proprio per questo: non un cercare a caso, un percorrere vie strane, ma come seguire il percorso che naturalmente conduce al Dio vero e che trova soddisfazione nell’incontro tra la ragione e la fede rivelata. Ecco allora il terzo cortocircuito: la libertà di religione viene fondata su una religiosità naturale, ma questa è già naturalmente orientata all’Unico e vero Dio.

Anche limitandoci solo a questi tre cortocircuiti, si vede che ciò che dovrebbe fondare la libertà di religione richiede invece di essere fondato sulla religio vera, non un Dio generico ma il Dio vero ed Unico. Per questo si deve sostenere che la questione della libertà di religione non è ancora chiusa e il Magistero senz’altro dovrà tornare a considerarla e a precisarla.

(fonte: lanuovabq.it)

Botta e risposta fra D. Morselli e Mons. Viganò sul Vaticano II

Qualche tempo fa, don Alfredo Morselli ha anticipato in forma di lettera a mons. Carlo Maria Viganò le considerazioni pubblicate successivamente nel blog messainlatino.it. Ecco il testo e la risposta di mons. Viganò.

Eccellenza carissima,

Ave Maria! Vorrei spiegare meglio perché non imputo al Vaticano II tutta la colpa della crisi attuale, pur non negando la sua funzione di detonatore (che senza esplosivo non combina nulla). Le strategie di marketing si dividono in strategie push (spingere) e pull (tirare); cioè una ditta per vendere un prodotto può cercare di crearne il bisogno e spinge una cosa di cui non c’è reale necessità. Oppure può – dopo indagini di mercato – capire che un’ampia fetta di potenziali clienti sentono la necessità di un certo prodotto. Le due strategie spesso si combinano.

Qual è l’analisi “commerciale” pre-Vaticano II? Il termometro di una buona parte del clero e intellighenzia cattolica segnava corruzione morale, tiepidezza, paura, orgoglio, carrierismo, desiderio di schiodarsi dalla Croce e di venire a patti con il mondo.

La pentola scoperchiata da Viganò bolliva già da molto tempo.

San Paolo diceva che sarebbero venuti tempi in cui gli uomini si sarebbero circondati di maestri secondo le loro voglie, maestri che avessero assecondato e reso possibile chiamare bene il male e viceversa (Cf. 2 Tim 4:3)

I maestri secondo le voglie del mondo hanno capito che era giunto il momento di presentarsi al mondo stesso e vendere a buon mercato il loro prodotto.

Quello che dico è che se non fosse stato pronto il mercato, il prodotto non sarebbe stato lanciato.

Dopo la morte di S. Pio X gli uomini hanno continuato a peccare, la lotta al modernismo si fece evanescente, il modernismo ricrebbe a tal punto che Pio XII, Garrigou Lagrange, Cordovani non riuscirono a scalfire la Nouvelle Théologie che occupava tutte le cattedre. La massoneria collocava i ricattabili più immondi nei posti chiavi e i buoni (in realtà non veramente buoni) furono tanti don Abbondio.

Il tumore diffondeva metastasi ovunque e l’ultimo Paolo VI, San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI non poterono che somministrare palliativi.

Qualcuno critica anche i suddetti pontefici, ma forse era il meglio di cui il Padre Eterno poteva disporre. Oppure misteriosamente lasciava che andasse a formarsi un provvidenziale “male della pena”.

E nel frattempo la “provetta” con un pontefice in vitro ad hoc era custodita nei laboratori dei modernisti. Ora il malato è all’hospice, appeso al duplice filo del “non praevalebunt” e delle promesse di Fatima. E anche alla gran quantità di Sangue della terza parte del segreto.

In Corde Matris
Sac. Alfredo M. Morselli


Natività di San Giovanni Battista
24 Giugno 2020

Caro e reverendo don Morselli,

La ringrazio per la Sua email, nella quale vedo confermata la Sua visione soprannaturale degli eventi che affliggono Santa Madre Chiesa.

Concordo con Lei sul fatto che il Concilio Vaticano II non può esser considerato come una sorta di soggetto a sé, dotato di volontà propria. Studi autorevoli hanno dimostrato che gli schemi preparatori faticosamente predisposti dal Sant’Uffizio dovevano confermare l’immagine di una Chiesa granitica che nella realtà, specialmente lontano da Roma, dava segni di pericoloso cedimento. E se fu così semplice sostituirli con nuovi schemi preparati nelle conventicole dei novatori tedeschi, svizzeri e olandesi, evidentemente molti esponenti dell’Episcopato (con la loro corte di sedicenti teologi, la maggior parte dei quali già oggetto di censure canoniche) erano corrotti nell’intelletto e nella volontà.

Quella che Ella identifica con le più comuni strategie di marketing e che giustamente vede realizzata nel Concilio fu un’operazione disonesta, una truffa ai danni dei fedeli e del clero: per incrementare il business, si cambiò il prodotto e l’immagine aziendale, promuovendolo con campagne pubblicitarie e sconti. Gli “avanzi di magazzino” vennero liquidati o mandati al macero. Ma la Chiesa di Cristo non è un’azienda, non ha finalità commerciali e i suoi ministri non sono manager. Questo errore clamoroso, anzi questa vera e propria frode fu concepita da personaggi che con questa visione umana e mercantile delle cose spirituali dimostrarono non solo la propria inadeguatezza, ma anche la propria indegnità al ruolo che ricoprivano. Eppure fu proprio quella mentalità che segnò ufficialmente la rottura con la Tradizione: trasformare la Chiesa in azienda significò metterla in assurda competizione con la concorrenza delle sette e delle false religioni, imponendo un adeguamento del “prodotto” alle presunte esigenze della clientela, e al tempo stesso impose anche la necessità di suscitare nei possibili acquirenti il bisogno per “beni e servizi” alternativi, nuovi, di cui essi non sentivano ancora la necessità. Ecco allora l’enfasi comunitaria della Liturgia, l’approccio “fai da te” alla Sacra Scrittura, il “fuori tutto” di Dottrina e Morale, le nuove divise del personale… Credo che, se vogliamo mantenere la similitudine che Ella ha suggerito, non si possa negare che proprio per eliminare la presenza di un prodotto che non ha molti concorrenti si dovesse non solo renderlo meno esclusivo, ma prima o poi giungere a far assorbire l’azienda che lo produce da una più potente e diffusa: inizialmente il prodotto migliore viene tenuto come “prima linea” per una clientela più esigente, poi viene tolto dalla produzione e infine scompare anche il marchio. Procedendo su questo cammino scivoloso, sciagurato e distruttivo, siamo arrivati al fallimento dell’azienda per mano del suo liquidatore argentino, pronto a consegnare la Chiesa della Misericordia Spa nelle mani del Nuovo Ordine Mondiale. Probabilmente Bergoglio confida che, in questo nuovo assetto, gli sarà riconosciuto un qualche ruolo dirigenziale, non fosse che come riconoscimento per l’opera compiuta.

Non è chi non veda che questa visione commerciale non ha nulla di cattolico, soprattutto dal momento che la Chiesa appartiene a Cristo, che ne delega il governo ai Suoi vicari. Trasformare la Chiesa in quello che non è e che mai potrà essere si configura come un peccato gravissimo e un crimine inaudito, verso Dio e verso il gregge che Egli ha ordinato di pascere in pascoli ben definiti, non di disperdere nei crepacci e tra i rovi. E se di questa rovina immane sono responsabili degli amministratori infedeli che hanno falsificato statuti e bilanci, e truffato i clienti, si dovrà chiedere loro conto: redde rationem villicationis tuae (Lc 16, 2).

Cum benedictione
+ Carlo Maria Viganò

Chiesa e post-concilio

Il card. Siri: al Vaticano II ci fu un gruppo di “contro-impostazione”

A cura di Stefano Maria Pace e Paolo Biondi – Rivista “30 Giorni”, n° 6, Giugno 1989, pp. 70-75.

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