Il Vaticano II, il concilio degli ideali da raggiungere

Il semestrale Fides Catholica pubblica l’intervista rilasciata da P. Serafino M. Lanzetta a Radici Cristiane, n. 177, 10/ 2022, in occasione dei 60 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II.

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Il Vaticano II 60 anni dopo. Bettazzi: evoluzione ecclesiale da applicare pienamente

Il vescovo emerito di Ivrea, 99 anni tra un mese, unico padre conciliare italiano vivente, ricorda le parole di Giovanni XXIII all’apertura del Concilio: “Non vogliamo cambiare verità della fede. Siamo noi che cambiamo nel capirle e nell’attuale meglio”. E il Sinodo può mettere al centro “la responsabilità di ogni battezzato nella Chiesa”

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Mons. Marchetto: Il Concilio Vaticano II va letto nella continuità della Chiesa

L’11 ottobre ricorrono i 60 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II: sia Giovanni XXIII che Paolo VI hanno sempre detto con chiarezza che volevano un rinnovamento che meglio valorizzasse la dottrina, precisa e immutabile. Una pastorale senza dottrina è inconcepibile, è lontana dalla Tradizione cattolica. E non si può dire di accogliere il Concilio se non si rispettano i documenti prodotti. Alla Nuova Bussola Quotidiana parla l’arcivescovo Agostino Marchetto, il più importante storico del Concilio.

di Nico Spuntoni (10-10-2022)

L’11 ottobre 1962 veniva aperto nella Basilica di San Pietro il Concilio Vaticano II che si sarebbe poi concluso l’8 dicembre 1965. Nel discorso d’inaugurazione, Giovanni XXIII chiarì il compito che affidava ai 2540 Padri Conciliari, dicendo loro: “Occorre […] che l’intera dottrina cristiana, senza toglierne alcuna parte, in questo nostro tempo sia ricevuta da tutti con nuovo slancio. Occorre che questa dottrina certa e immutabile, alla quale si deve mostrare sottomissione fedele, sia investigata ed esposta nel modo che i nostri tempi richiedono”.

Netta discontinuità o riforma nel solco della Tradizione? Da sessant’anni se ne discute all’interno e all’esterno della Chiesa, con un dibattito storiografico a tratti molto acceso. Una delle voci più importanti in questo ambito è stata quella dell’arcivescovo Agostino Marchetto, nunzio apostolico e segretario emerito del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti. A lui si devono due testi come “Il Concilio Vaticano II. Contrappunto per la sua storia” e “Il Concilio Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica” che hanno avuto il merito di contrastare la tendenza storiografica (comune ai due lati estremi) tesa a privilegiare la presentazione di un mutamento traumatico anziché di una continuità storica in cui tradizione e rinnovamento, come da lui spiegato, si abbracciano. In occasione di questo sessantesimo anniversario, La Nuova Bussola Quotidiana ha intervistato proprio monsignor Marchetto, l’uomo che – probabilmente proprio per questi sforzi – è stato definito da Papa Francesco “il migliore ermeneuta del Concilio Vaticano II”.

Eccellenza, sessant’anni fa l’apertura solenne del Concilio Vaticano II. L’intento dichiarato di Giovanni XXIII era quello di un “aggiornamento”. Qual è l’interpretazione più giusta da dare a questo termine su cui si è lungamente discusso? 
Per sé a poco a poco l’aggiornamento, nel nostro contesto, è stata espressione più propriamente legata al Codice di Diritto Canonico. Forse le parole successivamente adoperate, per tradurlo con linguaggio più usato, – cioè rinnovamento e riforma, ben intesa, e senza rotture – sono giuste, ancor più se abbracciano quanto poi seguirà, con espressione specialmente benedettina; «nella continuità dell’unico soggetto Chiesa».

Un Papa lo ha aperto, un altro lo ha portato a compimento. Si può parlare, secondo lei, di un’impronta specifica di Giovanni XXIII ed un’altra di Paolo VI?
In una comunicazione dal titolo “Tradizione e rinnovamento si sono abbracciati”, nella mia Vicenza, all’Accademia Olimpica, il 20 febbraio del 2014, trattavo in due capitoletti l’intenzione conciliare di papa Giovanni e poi di Paolo VI. Chi ha convocato il Concilio, ai Cardinali riuniti nel monastero di S. Paolo, annunciò la “buona nuova” conciliare, precisando che il Magno Sinodo – come l’ho sempre chiamato –  avrebbe inteso principalmente promuovere l’incremento della fede, il rinnovamento dei costumi e l’aggiornamento della disciplina ecclesiastica. Esso sarebbe stato uno spettacolo di verità, unità e carità, un invito, anche per i fratelli separati, all’unità voluta da Cristo. Il Papa pensò certo a un concilio pastorale, di aggiornamento, ma ciò non deve intendersi come qualcosa di pratico, dinamico, quasi separato dalla dottrina. È inconcepibile in effetti una pastorale senza dottrina, lontana dalla Tradizione ecclesiale.
Giovanni ne trattò chiaramente nella sua prima enciclica Ad Petri cathedram.e poi nel discorso di apertura del Concilio, con il famoso passo in cui il Papa attestava che «altra cosa è, infatti, il deposito stesso della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è la forma in cui le medesime vengono enunciate». Il Papa distingueva la sostanza, l’intera precisa ed immutabile dottrina, e la sua presentazione  (formulazione). In linea con questo indirizzo pastorale Giovanni XXIII precisava il modo di opporsi agli errori, preferendo alla severità “la medicina della misericordia”.

Questo era Giovanni XXIII. E Paolo VI?
Paolo VI, di formazione e caratteri diversi dal suo predecessore, mantenne però la sua stella polare dello “sviluppo nella continuità”: il Concilio proseguì con le stesse finalità (pastorali) e speranze. Non sarebbe dunque nel vero – affermò Paolo VI – chi pensasse che il Concilio Vaticano II rappresenti un distacco, una rottura o una liberazione dall’insegnamento della Chiesa, o autorizzi e promuova un conformismo alla mentalità del nostro tempo, in ciò che essa ha di effimero e di negativo. A conferma ricordo che proprio il giorno della sua “incoronazione”, Il Papa disse: «Riprenderemo […] l’opera dei nostri predecessori: difenderemo la santa Chiesa dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori dei suoi confini ne minacciano l’integrità e ne velano la bellezza; cercheremo di conservare ed accrescere la virtù pastorale della Chiesa».  E rimase fedele al suo impegno. Il 29 giugno 1978, in un bilancio, quasi, del suo pontificato, ormai alla fine, rivendicò come «intento instancabile, vigile, assillante che ci ha mossi in questi quindici anni di pontificato. “Fidem servavi”! possiamo dire oggi con umile e ferma coscienza di non avere mai tradito il santo vero». Bellissima espressione quest’ultima, di nuovo conio.

Le maggiori tensioni durante i lavori del Concilio si registrano sulla questione del matrimonio e sul rapporto tra primato e collegialità episcopale. Quali preoccupazioni spinsero Paolo VI ad intervenire direttamente con la Nota explicativa praevia e con i famosi quattro “modi” inviati alla Commissione teologica conciliare?
La mia ultima fatica di pubblicazione su testi riguardanti il Concilio Vaticano II, negli archivi e non ancora pubblicati, cioè  un “Sommario”  di quanto è custodito  in quello della Segreteria di Stato, non conferma che una delle maggiori tensioni si sia registrata sul matrimonio, anche perché – come nel caso del celibato ecclesiastico – Paolo VI riservò quasi subito a sé entrambe le questioni. 
Rimaniamo dunque  col rapporto tra primato e collegialità episcopale, rilevando subito che tale congiunzione è propriamente “cattolica”, come scriveva von Balthasar. La difficoltà di far prevalere in Concilio il consenso, quel “e”, a mio parere causò alla fine la pubblicazione della Nota Esplicativa Previa, «con i famosi quattro ‘modi’», come lei dice, inviati alla Commissione Dottrinale. A far prendere la decisione contribuì dunque un momento di particolare sofferenza del Papa, al ricevere alla vigilia del terzo periodo conciliare una “Nota personalmente riservata al Santo Padre” sullo schema della Chiesa, principalmente sul capitolo III. Gliela inviarono diciotto cardinali, un arcivescovo e quattro superiori generali. Non è possibile qui prolungarmi, ma fu uno “scossone” che, con l’aiuto del Segretario Generale del Concilio, fu riparato con la ragione e con la storia della discussione, del dialogo e del progressivo consenso. Possiamo ricordare che l’approvazione finale della Lumen Gentium fu data da ben 2151 Padri, mentre cinque dissentirono..E il Vescovo di Roma promulgò o, come si diceva, confermò. Penso dovermi fermare qui.

Già negli anni Settanta, Joseph Ratzinger sosteneva che «ciò che ha devastato la Chiesa dell’ultimo decennio non è stato il Concilio, ma il rifiuto di accoglierlo». Aveva ragione? Se sì, in che modo si è manifestata questa mancata recezione e che conseguenze ha comportato sul lungo periodo?
Per me, scusate, si accoglie il Concilio considerando 3 gradini di “discesa”, o “ascesa” – se volete -, basta intenderci.

Ce li può spiegare?
Il primo è quello storico, obiettivamente il più storico possibile: dev’essere il nostro sforzo che non si ferma ai primi anni post-conciliari, ai Diari scelti magari dagli interessati per basare i loro studi. Penso così a quello di Felici che ci ha fatto conoscere molto dell’animo conciliare di Paolo VI. Ho scritto un articolo al riguardo nel quale ho osato dire che, mancando il Diario propriamente suo (ne ebbe molti, negli anni, invece, Papa Giovanni), quello scritto da Felici potrebbe fare da specchio.
Il secondo gradino è quello dell’ermeneutica: deve essere corretta, ecclesiale, cattolica, la questione dell'”e”, come già detto. Nel 2012 ne ho scritto in un libro: “Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica”.
Il terzo è la ricezione: il Concilio diventa cosa nostra, accettiamo con gioia, che il Concilio è un Concilio. Certo. Non posso però partire da come l’abbiamo applicato a noi, o abbiamo imposto ad esso i nostri pensieri, opinioni, ideologie. senza passare dai due gradini precedenti questo terzo.

Lei ha sempre denunciato una certa tendenza a dare più importanza alla convocazione del Vaticano II in sé piuttosto che ai contenuti dei suoi documenti. Perché è sbagliato separare il Concilio-evento dalle decisioni conciliari?
Sono contrario come storico perché tengo conto di una tendenza storiografica, fondamentalmente in Francia, diciamo nella prima metà del secolo scorso, quando vi si passò dalla considerazione positiva del lungo periodo, nella ricerca, alla importanza dell'”evento”, che rompe la continuità. Applicare questa visione all’evento conciliare è proprio andare contro ciò che è essenziale nel Cattolicesimo, anche quello che può aiutare il dialogo ecumenico, fra l’altro. In fondo è contro i documenti che ne sono il corpo, ma vivificato dallo Spirito. Io chiamo sempre il Vaticano II un avvenimento, proprio per evitare la contraddizione storiografica.

Il cardinale Pericle Felici nel suo Diario da lei curato ha scritto che «forse nessun Concilio ha avuto una fine così bella e promettente». A cosa si riferiva il segretario generale del Concilio?
All’esperienza dell’avvenimento da lui vissuto e servito, per cui aveva sofferto e gioito e dalla sua conoscenza (o meno) della storia degli altri Concili. Poi anche la psicologia c’entra, quella di Felici stesso, e le votazioni quasi plebiscitarie che ci furono. E si era  trovato consenso, si era dialogato. E oggi invece la grande difficoltà è il dialogo intraecclesiale.

(Fonte: La Nuova BQ)

George Weigel: “Il Concilio riguardava molto più come cristianizzare il mondo che il cambiare la Chiesa”

La Chiesa deve abbracciare l’interpretazione dei papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI del Concilio Vaticano II, o affrontare l’irrilevanza.

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Perché il Concilio Vaticano II non condannò il comunismo

Juan Miguel Montes, direttore dell’Ufficio Tradizione Famiglia Proprietà di Roma, spiega perché il comunismo non fu denunciato al Concilio Vaticano II e quali furono le conseguenze di questo silenzio.

di Javier Navascués (09-11-2021)

Juan Miguel Montes, direttore dell’Ufficio Tradizione Famiglia Proprietà di Roma, spiega perché il comunismo non fu denunciato al Concilio Vaticano II e quali furono le conseguenze di questo silenzio.

Per molti anni il patto segreto tra Vaticano e URSS per non condannare il comunismo al Concilio Vaticano II è stato considerato una leggenda. Come è stata possibile una cosa così incomprensibile?

Il patto era legato all’impegno di non condannare il comunismo in cambio del permesso a rappresentanti qualificati del Patriarcato di Mosca di partecipare al Concilio. Non sfuggiva a nessuno che all’epoca la Chiesa ortodossa russa era profondamente legata al regime sovietico. Oggi può sembrare incomprensibile, ma nelle grandi manovre geopolitiche di quel difficile periodo della guerra fredda, questo patto aveva molto senso per l’URSS, che era in piena espansione territoriale e culturale. Due blocchi si contendevano l’egemonia mondiale e la Chiesa cattolica aveva un’influenza decisiva sull’opinione pubblica occidentale, molto più grande di quella che ha oggi. Il suo silenzio sul comunismo avrebbe significato una sorta di passaporto per quest’ultimo in modo da poter continuare la forte penetrazione che esso già stava operando attraverso la guerriglia e le guerre nel terzo mondo e, soprattutto nel primo mondo, nel campo della cultura e dell’educazione in generale.

Come nacque questo misterioso patto e su iniziativa di chi venne sviluppato?

Non saprei dire chi disse la prima parola, ma entrambe le parti avevano interesse a farlo. Ho già parlato dell’interesse sovietico. Da parte di ampi settori della Chiesa c’era una mentalità secondo cui la strategia del dialogo avrebbe trovato comprensione nel “buon cuore” degli avversari, e che alla fine essi avrebbero ricambiato tale benevolenza allentando le misure repressive contro i credenti nei paesi dominati dal comunismo ateo. Erano gli anni della famosa Ostpolitik vaticana, la cui figura di maggiore spicco divenne il futuro cardinale segretario di Stato, Agostino Casaroli, e che, secondo un altro cardinale, lo slovacco Ján Chryzostom Korec, portò a risultati disastrosi per la Chiesa. Il cardinale Korec arrivò a sostenere che la Chiesa clandestina, che stava fiorendo nella tribolazione, fu “svenduta” dall’Ospolitik vaticana in cambio di “vaghe e incerte promesse da parte dei comunisti”, il tutto, poi, a causa del silenzio sul comunismo da parte del Concilio. Un silenzio che Plinio Corrêa de Oliveira, nella sua nota dichiarazione di resistenza all’Ostpolitik vaticana, definì “enigmatico, sconcertante, sorprendente e apocalitticamente tragico”, e che, per le sue conseguenze pratiche, avrebbe fatto passare il Concilio alla storia come “a-pastorale” per eccellenza.

Quali sono state le conseguenze “a-pastorali” di questo silenzio conciliare nella Chiesa?

Forse la più grave è stata la diffusione della Teologia della Liberazione nelle sue varie componenti: “teologia della lotta di classe”, “teologia del popolo”, “teologia indigenista”, ecc. In paesi fino ad allora massicciamente cattolici, questa predicazione malsana ebbe due effetti: secolarizzò una parte dei fedeli, scambiando il messaggio evangelico di salvezza con un ideale di lotta puramente politica e sociale. D’altra parte — e qui stiamo parlando di milioni e milioni di persone — ha incoraggiato l’emigrazione verso comunità e sette protestanti e neoprotestanti che hanno rapidamente sostituito la Chiesa cattolica romana attraverso l’offerta di soddisfare gli aneliti spirituali di queste moltitudini. Quest’ultimo fatto è stato categoricamente denunciato in Brasile da papa Benedetto XVI. E pensare che nonostante questa devastazione, c’è chi nella Chiesa di oggi continua a glorificare la teologia della liberazione.

L’URSS ottenne molto, in piena guerra fredda, mentre il Vaticano ottenne molto poco, a parte la presenza degli ortodossi. Non era un patto eccessivamente squilibrato?

Certamente, lo era. Oltre alla “strategia del dialogo”, al Vaticano interessava anche un aspetto strettamente religioso: promuovere con le comunità cristiane quello che il cardinale Walter Kasper ha chiamato l’ecumenismo dei cammini paralleli di un’unica “Chiesa di Cristo” che marcia, ognuno per la sua strada, verso la seconda venuta di Nostro Signore Gesù Cristo. Questo ecumenismo dei cammini paralleli doveva sostituire l'”ecumenismo della convergenza” praticato fino ad allora, in cui i cristiani a-cattolici, come si diceva una volta, venivano caritatevolmente invitati a convergere nella Chiesa Cattolica per formare, come dice San Giovanni, “un solo gregge con un solo pastore”. Ma anche su questo fronte, vediamo un clamoroso fallimento delle illusioni post-conciliari. Mentre le vecchie denominazioni protestanti si stanno muovendo verso la completa autodissoluzione e insignificanza e la grande maggioranza degli ortodossi orientali sono riluttanti a dialogare con Roma, il vasto nuovo mondo dei neo-evangelici e dei pentecostali rimane come unica materia prima per continuare il dialogo ecumenico. Ma questa volta sono gli esponenti cattolici dell’ecumenismo post-conciliare a rifiutarsi di parlare con loro, a causa della loro frequente opposizione a piegarsi ai “segni dei tempi” che vedono nei cambiamenti della società secolarizzata dell’Occidente.

Nella sua opera di riferimento sul Concilio, il professor de Mattei sottolinea che Giovanni XXIII si lasciò manipolare dalla strategia sovietica, che usava il “pacifismo” come argomento principale. L’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII è stata anche controversa perché sembra essere molto simpatica al comunismo e all’URSS. Cosa ne pensa?

Credo che il professor de Mattei abbia ragione. Papa Giovanni XXIII aveva una spiccata capacità di emozionarsi e fu impressionato dai comunisti “di buon cuore”, specialmente da Nikita Khrushchev, che gli inviò un telegramma molto gentile, e furbo, di congratulazioni per il suo ottantesimo anniversario. A questo gesto ne seguirono molti altri, come, ad esempio, la già citata delegazione di ortodossi russi autorizzata dal Partito a venire al Concilio.

Forse la cosa più triste è che questo atteggiamento stupefacente ha quasi completamente minimizzato gli avvertimenti della Beata Vergine a Fatima che la Russia avrebbe diffuso i suoi errori in tutto il mondo. Non crede?

Certo che sì. Suor Lucia di Fatima insisteva che il terzo segreto fosse diffuso nel 1960. Ma come si poteva fare in quel contesto? Lì si parlava di una tremenda persecuzione della Chiesa e questo era legato a ciò che già si sapeva degli “errori della Russia” che si sarebbero diffusi nel mondo. Ora, nel 1960, nonostante l’intensità della guerra fredda guidata dai sovietici, tre figure di spicco irradiavano grande ottimismo, Papa Giovanni, il presidente americano Kennedy e il paffuto e sorridente Krusciov, che, nonostante il suo cordiale telegramma al Papa, aveva brutalmente perseguitato i cattolici in Ucraina durante il suo precedente mandato in quella nazione. Il Messaggio della Madonna a Fatima suonava francamente “stonato” rispetto allo spirito ottimista che la propaganda dei media e i grandi personaggi pubblici dell’epoca volevano rappresentare.

Come hanno potuto essere ignorate le voci di così tanti vescovi di tutto il mondo, specialmente quelli dei paesi che soffrivano le atrocità del comunismo?

Un giorno, tutti noi, davanti al Giudice Divino, sapremo perché cardinali come Mindszenty, Korec, Swiatek, interi episcopati come quello rumeno, ucraino e altri poterono essere abbandonati al loro destino in quegli anni. È vero che negli ultimi decenni, molti esponenti di questo martirio in odium fidei sono stati riconosciuti e sono saliti alla gloria degli altari. Ma molti ancora mancano in quella lista, mentre oggi sembrano favoriti alcuni dubbi martiri della “Teologia della liberazione”, che sono sì morti atrocemente, ma che erano impegnati in cause politiche non strettamente legate alla Fede.

(fonte: infocatolica.com; traduzione: atfp.it)

Sessant’anni fa l’annuncio del Concilio

Intervista a Marco Roncalli, biografo e pronipote di Giovanni XXIII.

di Eugenio Bonanata (25-01-2019)

L’anniversario è di quelli da ricordare assolutamente. Il 25 gennaio 1959 nella basilica di San Paolo fuori le Mura, Papa Giovanni XXIII annunciava il suo progetto di indire un Concilio per la Chiesa universale.

Papa Giovanni XXIII arriva a San Paolo fuori le Mura il 25 gennaio 1959. Alla sua destra il cardinale Alfredo Ottaviani.

Ne parliamo con Marco Roncalli, biografo del Santo Pontefice bergamasco al quale ha dedicato numerose opere tradotte in diverse lingue: «Sì, proprio sessant’anni fa, dopo la celebrazione conclusiva della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, Giovanni XXIII, eletto papa da tre mesi, con umile risolutezza di proposito — sono parole sue — affermava il suo progetto di indire un Concilio per la Chiesa universale, ma anche un Sinodo per la diocesi di Roma e la riforma del Codice di Diritto Canonico. Era domenica quel 25 gennaio e il Pontefice faceva questo annuncio inatteso a meno di una ventina di cardinali riuniti. Sì, per ringiovanire la Chiesa, ai suoi occhi e da sempre non un museo ma un giardino, per rispondere ai quesiti riversati sul suo tavolo, per far partire la ricomposizione dell’unità dei cristiani, per dar voce all’universalità ecclesiale, per avviare l’esercizio della collegialità episcopale, per discernere “i segni dei tempi”… non doveva inventare niente. Studioso di storia, conosceva bene lo strumento più adatto, da sempre presente nella dinamica della storia della Chiesa: il Concilio. E non importa se esistevano correnti che dopo la proclamazione del dogma sull’infallibilità pontificia al Concilio Vaticano I lo ritenevano superfluo».

Lei ha detto che fu un annuncio inatteso. Con chi si era consultato in precedenza? Come è nata in lui l’idea del Concilio?

Fu davvero una sorpresa per quasi tutti gli stessi cardinali presenti, meno di una ventina, che del resto rimasero attoniti, in un silenzio che il papa faticò a giustificare…tutti come stupiti. E per la verità la notizia arrivò al mondo prima che a quei porporati. Infatti, dopo la messa celebrata dall’abate e l’omelia papale, Giovanni XXIII varcava la soglia dell’aula capitolare per la sua comunicazione mentre era già passato mezzogiorno, l’ora in cui — per i vaticanisti — cessava l’embargo dell’annuncio e le agenzie cominciavano a far partire i loro lanci. Quest’idea in lui, che lungo la sua vita più volte aveva parlato dell’importanza dei Concili, in Bulgaria, in Turchia e Grecia, in Francia, a Venezia, tornò a sbocciargli in modo spontaneo. E ne parlò con il suo segretario particolare don Loris Francesco Capovilla (poi cardinale centenario di Papa Francesco), quarantotto ore dopo l’elezione, la sera di giovedì 30 ottobre ’58, dopo il rosario. Ne fece un cenno così, da storico, en passant. Pochi giorni dopo, la sera del 2 novembre il Papa torna sul tema con Capovilla dopo averne parlato la mattina con il cardinale Ernesto Ruffini. Ma sappiamo che in segreto il Papa toccò il tema in più di un incontro; con il suo confessore monsignor Alfredo Cavagna; con il suo successore a Venezia, il cardinale Giovanni Urbani; con il vescovo di Padova monsignor Girolamo Bortignon; con il cardinale Gregorio Agagianian; con l’amico don Giovanni Rossi; ecc. E, come è ben documentato, anche se non fu il primo, ma fu quello di cui avvertì il bisogno di un assenso, con il Segretario di Stato Domenico Tardini.

Quando Giovanni XXIII gli chiese il suo parere?

Lo fece non appena fu sicuro – è lui a scriverlo – che la sua non era fantasia peregrina, ma un’ispirazione per così dire divina, che arrivava dall’alto e cui occorreva sottomettersi…per così dire un’illuminazione dello Spirito Santo. Dal diario di Papa Roncalli scopriamo che parlò con Tardini, non senza un po’ di titubanza, il 20 gennaio ‘59, in udienza. E gli parlò sia della sua decisione di convocare il Concilio, sia già della sua intenzione di annunciarlo cinque giorni dopo. Il Segretario di Stato gli manifestò il suo plauso e parlò di una grande benedizione per il mondo intero. Giovanni XXIII era felice. L’idea del Sinodo per Roma invece, e lo documenta ancora il diario papale, arrivò da monsignor Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di Stato. Ovvio che a quel punto era necessaria anche una revisione del Codice di diritto canonico, bisognoso di aggiornamento. Tutte modalità per rispondere a preoccupazioni pastorali, come vescovo di Roma e come pastore della Chiesa universale.

In ogni caso, lungo il ‘900 al Concilio, avevano pensato anche altri. È così?

Certamente. Ci avevano pensato di sicuro sia Papa Ratti, decisosi poi a lasciar cadere tutto aspettando di veder risolta la “Questione Romana”, sia Papa Pacelli al quale i cardinali Alfredo Ottaviani ed Ernesto Ruffini avevano motivato le ragioni per una convocazione: due abbozzi tenuti a lungo segreti. Ma, ad auspicare un Concilio all’alba del secolo, c’erano già vescovi come Geremia Bonomelli e un prelato come Celso Costantini che nel 1939 aveva scritto un dossier molto articolato dal titolo eloquente “Sulla convenienza di convocare un Concilio Ecumenico”. Sul tema abbiamo articoli di scrittori come Giovanni Papini, auspici formulati con chiarezza da preti ben noti come don Giovanni Calabria o come don Don Zeno Saltini che lo aspettavano. E’ poi innegabile che già prima dell’elezione di Giovanni XXIII sono all’opera vari movimenti di riforma che in qualche modo preparano questo straordinario evento: quello liturgico; biblico; patristico; ecumenico; quello per l’apostolato dei laici…

Marco Roncalli, biografo del prozio Giovanni XXIII.

Di fatto però è Papa Giovanni XXIII a superare ogni difficoltà e tentennamento e a convocare il Concilio, dopo aver pregato, insomma dopo essersi consultato con il Signore e la sua coscienza.

Proprio così. E quindi si superano certe idee come quelle del gesuita Louis Billot per cui con la definizione dell’infallibilità pontificia doveva essere considerata chiusa l’epoca dei Concili “così dispendiosi, così scomodi, così pieni di difficoltà e di pericoli di ogni specie”. Anzi come gli storici del Concilio hanno sottolineato a questo riguardo, il Papa ha preso questa storica decisione anche con piena coscienza della natura primaziale del suo atto. Dietro il quale non è difficile vedere anche la sua sconfinata fiducia in Dio. Quella che l’aveva portato a rispondere all’ispirazione, prima ancora di aver ogni risposta circa quanto necessario per realizzarla. C’è però una cosa alla quale dare risalto in tutto questo discorso legato all’anniversario.

Di cosa si tratta nello specifico?

Cercare di capire a che tipo di Concilio pensava già Giovanni XXIII. E cioè, capire anche se il Papa non avesse ancora tutte le idee chiare: la durata; i vari temi; le procedure; il nome stesso, il nome Vaticano II lo decide ai primi di luglio ’59; il luogo preciso, San Pietro, ma qualcuno ipotizzava pure San Paolo, San Giovanni in Laterano. Capire cosa non voleva che fosse il suo Concilio come poi emergerà con chiarezza all’apertura dell’assise nel discorso Gaudet Mater Ecclesia nell’ottobre ‘62. Certo – mi pare – fin da subito c’è la connotazione pastorale, c’è la necessità di mutamenti di stile e linguaggio. Ma ai suoi occhi si trattava di aggiornamento di strategia pastorale oppure le trasformazioni del vocabolario implicavano anche la trasmissione di nuovi valori come l’apprezzamento dell’”altro” nella disponibilità a trovare terreni comuni di collaborazione? Quale conversione esigeva di fatto il Concilio dai padri chiamati ad un ruolo di protagonisti per decidere con lui il futuro della Chiesa? Forse c’è un momento successivo, ma non troppo lontano nel tempo, che aiuta a rispondere a queste domande non irrilevanti.

E qual è questo momento successivo?

Dopo l’annuncio per la convocazione del Concilio è necessario redigere un documento ufficiale: la Bolla di indizione. Sappiamo che il Papa e il suo segretario approntarono alcune note sul carattere necessario da dare a questo documento. E oggi conosciamo più di una espressione che ci dice — non possiamo negarlo — che Giovanni XXIII non solo voleva un nuovo Concilio, ma voleva distanziarsi dal Vaticano I riconoscendo che erano parecchio mutate le condizioni. Per trovare un punto di ispirazione per la sua Bolla, il Papa però andava ancora più indietro nel tempo arrivando sino al Concilio di Trento e al discorso finale pronunciato dall’allora vescovo coadiutore di Famagosta, e futuro vescovo di Bergamo. Più che lamentele sulle difficoltà in quel testo -subito piaciutogli — si poneva in luce “la sana dottrina nella sua forza di attrazione verso lo spirito e l’insegnamento di Cristo”. Credo che questo meriti una riflessione che ci riporta ancora al dibattito a lungo sotto i riflettori negli anni scorsi: quello sull’ermeneutica del Concilio, fra rottura o discontinuità, e riforma o rinnovamento, nella continuità dell’unico soggetto Chiesa.

FONTE: vaticannews.va

L’annuncio del Concilio nel ricordo di un testimone

Uno dei pochi testimoni ancora in vita degli anni del Vaticano II è Guido Gusso, aiutante di camera del Papa, che racconta anche alcune confidenze di Giovanni XXIII: «È ora che la Chiesa si modernizzi, con i tempi moderni che abbiamo. — Gli disse il Pontefice. — Perché noi siamo ancora ancorati al Concilio di Trento. Pertanto la Chiesa si deve rinnovare, si deve adattare ai tempi».

Città del Vaticano, 24 gennaio 2019 — Uno dei pochi testimoni ancora in vita è Guido Gusso — in quel periodo “aiutante di camera” del Papa — che accompagnò Giovanni XXIII a San Paolo e assistette allo storico annuncio.

Ci racconta cosa è successo quel giorno?

Ricordo proprio bene quel giorno, il 25 gennaio 1959. Ho dato una mano al Santo Padre a mettersi i paramenti, cioè il rocchetto e la mozzetta. E lui mi ha detto: «Guido, prendi il rocchetto più bello perché oggi sarà una giornata eccezionale, ché dovrò dare un grande annuncio». Allora ho messo a posto tutto, il mantello rosso, il cappello rosso e siamo scesi per prendere l’auto.

L’allora cardinale Angelo Giuseppe Roncalli con il giovane Guido Gusso a Venezia.

Guidava lei?

La portava il cavalier Angelo Stoppa, che era l’autista di Papa Pacelli. Durante il percorso, il Papa si era come assorto, non parlava. Normalmente, lui parlava sempre… ma quel giorno, quella mattina, tutto in silenzio. Siamo arrivati a San Paolo, c’è stata la cerimonia, e poi ha invitato tutti i cardinali ad andare nella “saletta”, una piccola aula. E là mi sono fermato anch’io, perché avevo il cappello, il mantello e la borsa. E lui ha annunciato che avrebbe fatto un sinodo, il Sinodo romano, che il Sinodo sarebbe quello per i preti. Già a Venezia l’aveva fatto, perché io stavo a Venezia con lui. Poi, dopo aver parlato un po’ del Sinodo disse: «Vi debbo dare un grande annuncio: indirò un Concilio». Al momento c’è stato un «ohhhhh!», e poi un silenzio di tomba. Nessuno ha più parlato. E poi c’è stato un brontolio generale… Lui ha spiegato… e poi ha detto anche che doveva fare un’altra cosa…

La riforma del Codice.

La riforma del Codice, ecco. Ha spiegato un po’, e tutti sono andati via, ognuno per conto suo. Il Papa è salito in macchina, serio. E disse: «Non l’hanno presa bene: questa cosa del Concilio a nessuno gli garbava». E basta. Poi siamo tornati a casa. Allora, in camera da letto, mentre si levava il rocchetto, la mozzetta e tutti i paramenti che aveva addosso, io gli chiesi: «Santità, io sono ignorante, non so che cosa sia questo Concilio». «Eh — diceva — come non lo sai?». «No — dissi — ma mi consola che quel cardinale che stava vicino a me ha chiesto al suo collega: “Di’ un po’, ma che è ‘st’affare del Concilio, che non so che cosa sia?”». Allora lui, con pazienza, mi ha fatto sedere nel suo studio e mi ha spiegato i Concili, incominciando dai primi Concili che facevano all’epoca, mi pare secondo o terzo secolo, per arrivare poi al Concilio di Trento e all’ultimo, il concilio Vaticano I, che poi è stato sospeso, perché c’è stata la presa di Roma con Pio IX.

Giovanni XXIII con Guido Gusso, giovane suo “aiutante di camera”.

Quindi, alla fine, quel giorno lui era contento o no?

Era contento, altroché contento! È stata un’ispirazione, diceva: «È ora che la Chiesa si modernizzi, con i tempi moderni che abbiamo. Perché noi siamo ancora ancorati al Concilio di Trento. Pertanto la Chiesa si deve rinnovare, si deve adattare ai tempi». Questo era quello che voleva.

E si è meravigliato della reazione dei cardinali?

No… Lo sapeva… Mi ha detto: «Già incominciano a tirarmi le pietre. Stai attento, tu, nella vita ti può capitare come capita a me, che mi tirano i sassi. Non raccattarli, eh?». Era buono, era buono. E posso dire, dopo sessant’anni ci voleva un argentino come Francesco per valorizzare e dare impulso al grande Concilio fatto. È stato grande Paolo VI che l’ha portato avanti, perché credo che chiunque altro avrebbe messo da parte tutto.

Cos’altro disse durante il viaggio di ritorno in Vaticano?

Non ha detto «a»; non ha detto «a». Solo qualche parola con monsignor Capovilla. Però, posso dire che lui per il Concilio ha dato la vita. Poi, l’11 ottobre è stato grandioso: l’apertura, era contento! Lui sperava di poterlo anche chiudere. Purtroppo è morto, per un brutto male. Ha sofferto molto.

FONTE: OsservatoreRomano.va

L’idea del Concilio. Loris Capovilla racconta le confidenze di Giovanni XXIII

Papa Roncalli confidò l’intenzione di indire un nuovo Concilio ecumenico appena pochi giorni dopo la sua elezione al soglio di Pietro. Lo fece durante una conversazione con il suo segretario particolare, don Loris Capovilla.

di Eugenio Bonanata (23-01-2019)

Don Loris Capovilla è stato il segretario particolare di Papa Giovanni XXIII ed è scomparso nel 2016. Quattro anni prima, nel 2012 , ai microfoni di Luca Collodi alla Radio Vaticana ha lasciato la sua testimonianza in un’intervista conservata negli archivi dell’emittente vaticana: «Quando il Papa me ne parlò la prima volta, era Papa da appena cinque giorni. Fece un cenno vago, disse: “Sul mio tavolo si riversano tanti problemi, interrogativi e preoccupazioni. Ci vorrebbe un qualcosa di singolare e di nuovo, non solo un Anno Santo”. Nel Codice di Diritto canonico, allora da poco riformato, c’è un capitolo chiamato “De Concilio ecumenico”. Più avanti, me ne ha parlato un’altra volta, e io sono sempre rimasto in silenzio. E’ venuto poi quella sera del 21 dicembre del 1958, me ne riparlò e mi disse: “Il tuo superiore ti ha accennato a questo grande disegno, ti sembra essere ispirazione del Signore? Tu finora non ha detto neanche una parola…”. E toccandomi il braccio, mi disse: “Il fatto è che tu ragioni un po’ umanamente, come un impresario che fa un progetto e chiama l’architetto, i consulenti, che si intende con le banche. Per noi invece è già un gran dono di Dio accettare una buona ispirazione e parlarne. Non pretendo di arrivare a celebrarlo, a me basta annunciarlo”».

L’allora don Loris Capovilla con Giovanni XXIII.

Quali erano le preoccupazioni sulle quali Papa Giovanni aveva posto la sua attenzione?

Si trattava dei problemi che erano sul tappeto, i problemi che hanno tutti: teologici, morali, storici ed anche economici. Molte volte questi sono anche un po’ aggrovigliati e non si risolvono con un semplice colloquio, specialmente se riguardano la Chiesa universale e la Chiesa particolare. Il Papa disse che eravamo noi a dover trattare queste questioni, studiarle, indagarle ed approfondirle insieme. E poi, sempre insieme, sull’altare della Confessione di Pietro, trarre le conclusioni, che sono poi i 16 documenti che oggi brillano come lampade sulla tomba dell’Apostolo. Anche dinanzi a tutti coloro che dicevano che ci voleva un gran coraggio, alla sua età, egli rispondeva che non era lui a doverlo fare: “Il Concilio lo fa il Signore, lo fa la Chiesa nel suo insieme. Noi siamo le sentinelle del momento. Dopo un Papa, ne viene un altro”. Non è vero che lui aveva fretta: desiderava solo dire come dovevamo camminare, cioè tutti insieme. Entriamo in Concilio per fare cosa, prima di tutto? Per professare, in faccia al mondo, la nostra fede. Ed infatti, il giorno dell’apertura del Concilio, il momento più solenne non è stato, a mio avviso, quello della grande processione dei 2500 vescovi, questo “fiume bianco” che attraversava Piazza San Pietro. Per me, il momento più solenne è stato quando il Papa, toltosi lo zucchetto e inginocchiatosi in faccia all’assemblea, intonò: “Ego, Ioannes, Ecclesiae catholicae episcopus, credo in Unum Deum, Patrem Onnipotentem”. Quando, cioè, professò l’atto di fede.

Lei come spiega la crisi dell’Occidente, la crisi dei valori, la crisi economica e l’insoddisfazione sociale dell’inizio del Terzo Millennio?

C’è una cosa che mi ha sempre colpito: la “dottrina dei carismi”, che si trova al capitolo 12, della prima Lettera ai Corinzi. Lì c’è scritto che Dio distribuisce dei doni, ma viene detta anche un’altra cosa molto importante. Al versetto 7 del capitolo 12, per me c’è la parola decisiva e determinante per la condotta del cristiano: quello che hai è tuo, la tua intelligenza, i tuoi beni materiali e culturali, la tua fede è tua; però ti è stata data “ad comunem utilitatem”, cioè per il bene comune.

Ascolta l’intervista a don Loris Capovilla

FONTE: vaticannews.va

La Fraternità ha nelle mani un tesoro

Intervista rilasciata da Don Davide Pagliarani, superiore generale della FSSPX, al Servizio Informazioni della Fraternità San Pio X.

Don Davide Pagliarani

Signor Superiore Generale, Lei succede ad un vescovo che è stato a capo della Fraternità San Pio X per 24 anni e che per di più l’ha ordinato sacerdote. Qual è il suo sentimento nel succedergli?

Mi sono già posto la questione anche quando fui nominato Direttore del seminario de La Reja, dove ero stato preceduto nell’incarico da due vescovi. Diciamo che questa volta la cosa è un po’ più complicata! Mons. Fellay rappresenta una personalità importante nella storia della Fraternità, perché l’ha diretta per un periodo che corrisponde alla metà della sua esistenza. Durante questo lungo periodo, le prove non sono mancate e tuttavia la Fraternità continua ad esserci, portando alto lo stendardo della Tradizione. Io penso che questa fedeltà della Fraternità alla sua missione è in qualche modo il riflesso della fedeltà del mio predecessore alla sua missione. Per questo, io tengo a ringraziarlo a nome di tutti.

Certuni hanno voluto vedere in Lei quanto meno una personalità molto diversa da quella del suo predecessore. Vi è un punto sul quale vi sentire veramente diversi?

Devo confessare – cum grano salis – che io detesto irrimediabilmente tutti i mezzi elettronici senza eccezione e senza possibilità di cambiare opinione, mentre Mons. Fellay è un esperto in materia…

Come vede la Fraternità San Pio X, che dovrà dirigere per dodici anni?

La Fraternità ha nelle mani un tesoro. Più volte è stato sottolineato che questo tesoro appartiene alla Chiesa, ma io penso che si può dire che esso appartiene anche a noi di pieno diritto. Esso è nostro ed è per questo che la Fraternità è interamente un’opera della Chiesa. Già adesso! La Tradizione è un tesoro, ma per conservarla fedelmente noi dobbiamo essere coscienti che siamo dei vasi d’argilla. La chiave del nostro avvenire sta in questo: nella coscienza della nostra debolezza e della necessità di essere vigilanti su noi stessi. Non basta la professione di fede nella sua integralità, se le nostre vite non sono l’espressione fedele e concreta di questa integralità della fede. Vivere la Tradizione significa difenderla, lottare per essa, battersi perché essa trionfi innanzi tutto in noi stessi e nelle nostre famiglie, per poter in seguito trionfare nell’intera Chiesa. Il nostro desiderio più caro è che la Chiesa ufficiale non la consideri più come un peso o un insieme di cose vecchie e superate, ma piuttosto come l’unica via possibile per rigenerarsi. Tuttavia, le grandi discussioni dottrinali non saranno sufficienti per portare a termine questo lavoro: prima di tutto noi abbiamo bisogno di anime pronte per ogni tipo di sacrificio. Questo vale sia per i consacrati sia per i fedeli. Noi stessi dobbiamo sempre rinnovare la nostra attenzione per la Tradizione, non in maniera puramente teorica, ma in maniera veramente soprannaturale, alla luce del Sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo sulla Croce. Questo ci preserverà da due contrapposti pericoli che talvolta si sostengono l’un l’altro e cioè: una stanchezza pessimista o perfino disfattista e un certo cerebralismo che inaridisce. Io sono convinto che noi abbiamo la chiave per far fronte alle diverse difficoltà che potranno presentarsi.

Compreso il problema maggiore della crisi nella Chiesa?

Quali sono le questioni importanti oggi? Le vocazioni, la santificazione dei sacerdoti, la cura delle anime. La drammatica situazione della Chiesa non deve avere un impatto psicologico tale che i nostri spiriti non siano più in grado di adempiere i nostri doveri. La lucidità non deve essere paralizzante: quando diventa tale, si trasforma in tenebre. Considerare la crisi alla luce della Croce ci permette di mantenere la serenità e di fare un passo indietro, la serenità e il passo indietro sono entrambi indispensabili per garantirci un giudizio sicuro. La presente situazione della Chiesa è quella di un tragico declino: caduta delle vocazioni, del numero dei preti, della pratica religiosa; sparizione delle abitudini cristiane, del più elementare senso di Dio, le quali oggi si manifestano – ahimè – con la distruzione della morale naturale… Ora, la Fraternità possiede tutti i mezzi per guidare il movimento di ritorno alla Tradizione. Più precisamente, noi dobbiamo far fronte a due esigenze: 1) da un lato, preservare la nostra identità ricordando la verità e denunciando l’errore: «Praèdica verbum, insta opportune, importune: árgue, obsécra, increpa», predica la parola, insisti in ogni occasione opportuna e inopportuna, ammonisci, rimprovera, esorta (2 Tim 4, 2); 2) dall’altro, «in omnia patiéntia, et doctrina», con ogni pazienza e dottrina (ibidem): attirare alla Tradizione quelli che camminano in questa direzione, incoraggiarli, introdurli a poco a poco alla battaglia e ad un’attitudine sempre più coraggiosa. Vi sono ancora delle anime autenticamente cattoliche che hanno sete di verità, e noi non abbiamo il diritto di rifiutare loro il bicchiere di acqua fresca del Vangelo, con un’attitudine indifferente o altezzosa. Queste anime finiscono spesso con l’incoraggiare noi stessi con il loro coraggio e la loro determinazione. Si tratta di due esigenze complementari che non possiamo separare tra loro, privilegiando sia la denuncia degli errori usciti dal Vaticano II, sia l’assistenza dovuta a coloro che prendono coscienza della crisi e che hanno bisogno di essere illuminati. Questa doppia esigenza è intimamente una, poiché è la manifestazione dell’unica carità della verità.

Come si traduce concretamente questo aiuto alle anime assetate di verità?

Io penso che non bisogna mettere limiti alla Provvidenza, che caso per caso ci darà i mezzi adatti alle diverse situazioni. Ogni anima è un mondo a sé, ha dietro di lei un percorso personale, bisogna conoscerle individualmente per essere in grado di venir loro efficacemente in aiuto. Si tratta prima di tutto di un’attitudine fondamentale che dobbiamo coltivare tra noi, di una disposizione previa a venire in aiuto e non di una preoccupazione illusoria di stabilire un modo di comportarsi universale che sarebbe applicabile a ciascuno. Per dare degli esempi concreti, i nostri seminari oggi accolgono diversi sacerdoti esterni alla Fraternità – tre a Zaitkofen e due a La Reja – che vogliono vedere chiaro nella situazione della Chiesa e che soprattutto desiderano vivere il loro sacerdozio nella sua integralità. E’ con l’irradiazione del sacerdozio e unicamente con questo che si ricondurrà la Chiesa alla Tradizione. Noi dobbiamo imperativamente ravvivare questa convinzione. La Fraternità San Pio X avrà presto 48 anni di esistenza. Per grazia di Dio, essa ha conosciuto un’espansione prodigiosa nel mondo intero; essa ha delle opere che crescono dappertutto, numerosi sacerdoti, distretti, priorati, scuole… L’altra faccia della medaglia di questa espansione è che lo spirito di conquista iniziale si è inevitabilmente affievolito. Senza volerlo, siamo sempre di più assorbiti dalla gestione dei problemi quotidiani generati da questo sviluppo; lo spirito apostolico può risentirne. I grandi ideali rischiano di sbiadire. Noi siamo alla terza generazione di sacerdoti dalla fondazione della Fraternità nel 1970… Bisogna ritrovare il fervore missionario, quello che ci ha infuso il nostro fondatore.

In questa crisi che fa soffrire tanti fedeli legati alla Tradizione, come concepire le relazioni fra Roma e la Fraternità?

Anche in questo caso, dobbiamo cercare di mantenere una visione soprannaturale, evitando che questa questione si trasformi in un’ossessione, perché ogni ossessione assedia soggettivamente la mente e le impedisce di raggiungere la verità oggettiva che è il suo scopo. In particolare oggi, noi dobbiamo evitare la precipitazione nei nostri giudizi, spesso favorita dai moderni mezzi di comunicazione; non dobbiamo lanciarci nel commento “definitivo” di un documento romano o di un argomento sensibile: sette minuti per improvvisarlo e un minuto per metterlo in linea… Fare uno “scoop”, sollevare “rumore” sono le nuove esigenze dei media, ma queste propongono anche un’informazione superficiale e – ciò che è peggio – a lungo termine: essi rendono impossibile ogni riflessione seria e profonda. I lettori, gli ascoltatori, gli spettatori si inquietano si angosciano… Questa ansietà condiziona la ricezione dell’informazione. La Fraternità ha troppo sofferto di questa tendenza malsana e – in ultima analisi – mondana, che noi tutti dobbiamo cercare di correggere d’urgenza. Meno stiano connessi a internet, più ritroveremo la serenità di spirito e di giudizio. Meno schermi abbiamo, più saremo in grado di fare una valutazione oggettiva dei fatti reali e della loro esatta portata.

11 agosto 2018 – Il commiato dal seminario di La Reja, in Argentina

Circa le nostre relazioni con Roma, quali sono i fatti reali?

Dopo le discussioni dottrinali con i teologi romani, possiamo dire che abbiamo davanti a noi due fonti di comunicazione, due tipi di relazioni che si stabiliscono su livelli che devono essere chiaramente distinti: 1) una fonte pubblica, ufficiale, chiara, che ci impone sempre di fare delle dichiarazioni – sostanzialmente – con gli stessi contenuti dottrinali; 2) un’altra che viene da tale o tal’altro membro della Curia, con degli scambi privati interessanti che contengono degli elementi nuovi sul valore relativo del Concilio, su tale o tal’altro punto di dottrina…  Si tratta di discussioni inedite e interessanti che vanno proseguite certamente, ma che rimangono sempre delle discussioni informali, ufficiose, private, mentre sul piano ufficiale – malgrado una certa evoluzione del linguaggio – vengono sempre riproposte le stesse esigenze. Certo, noi prediamo buona nota di ciò che è detto in privato in maniera positiva, ma non è veramente Roma che parla, si tratta di Nicodemi benevoli e timidi e non rappresentano la gerarchia ufficiale. Occorre dunque attenersi strettamente ai documenti ufficiali e spiegare perché noi non possiamo accettarli. Gli ultimi documenti ufficiali – per esempio la lettera del cardinale Müller del giugno 2017 – manifestano sempre la stessa esigenza: il Concilio dev’essere accettato preventivamente, e dopo sarà possibile continuare a discutere su ciò che non è chiaro per la Fraternità. Così facendo le nostre obiezioni vengono ridotte ad una difficoltà soggettiva di lettura e di comprensione e ci si promette l’aiuto per capire bene ciò che il Concilio voleva dire veramente. Le autorità romane fanno di questa accettazione preventiva una questione di fede e di principio; lo dicono esplicitamente. Le loro esigenze odierne sono le stesse di quelle di trent’anni fa. Il concilio Vaticano II dev’essere accettato in continuità con la tradizione ecclesiale, come una parte da integrare in questa tradizione. Ci si concede che si possono avere delle riserve da parte della Fraternità, che meritano delle spiegazioni, ma in nessun caso un rifiuto degli insegnamenti del Concilio in quanto tali: si tratterebbe puramente e semplicemente di Magistero! Ora, il problema è sempre lo stesso, sempre sullo stesso punto, e noi non dobbiamo vederlo altrove: qual è l’autorità dogmatica di un Concilio che si è voluto pastorale? Qual è il valore di questi nuovi princípi insegnati dal Concilio e che sono stati applicati in maniera sistematica, coerente e in perfetta continuità con ciò che era stato insegnato dalla gerarchia che fu responsabile sia del Concilio sia del post-Concilio?  Questo Concilio reale è il Concilio della libertà religiosa, della collegialità, dell’ecumenismo, della “tradizione vivente”… e sfortunatamente non si tratta del risultato di una cattiva interpretazione. Prova ne è che questo Concilio reale non è mai stato rettificato né corretto dall’autorità competente. Esso veicola uno spirito, una dottrina, un modo di concepire la Chiesa che sono un ostacolo per la santificazione delle anime, e i cui risultati drammatici sono sotto gli occhi di tutti gli uomini intellettualmente onesti, di tutte le persone di buona volontà.  Questo Concilio reale, che corrisponde sia ad una dottrina insegnata sia ad una pratica vissuta, imposta al «Popolo di Dio», noi ci rifiutiamo di accettarlo come un concilio pari a tutti gli altri. E’ per questo che noi ne discutiamo l’autorità, ma sempre in uno spirito di carità, perché noi non vogliamo altro che il bene della Chiesa e la salvezza delle anime. Le nostre discussioni non sono una semplice disputa teologica e, infatti, esse vertono su degli argomenti che non sono «discutibili»: è la vita della Chiesa che qui è in giuoco, indiscutibilmente. E su questo che Dio ci giudicherà. Ecco dunque in quale prospettiva noi consideriamo i testi ufficiali di Roma, con rispetto ma anche con realismo; non si tratta di essere di destra o di sinistra, duri o lassisti: si tratta semplicemente di essere realisti.

Che fare nell’attesa?

Io posso rispondere solo richiamando alcune priorità. Innanzi tutto, avere fiducia nella Provvidenza, che non può abbandonarci e che ci ha sempre dato dei segni della sua protezione e della sua benevolenza. Dubitare, esitare, chiedere altre garanzie da parte sua costituirebbe una grave mancanza di gratitudine. La nostra stabilità e la nostra forza dipendono dalla nostra fiducia in Dio: io penso che noi dovremmo esaminarci tutti su questo punto. In più, bisogna riscoprire ogni giorno il tesoro che abbiamo nelle nostre mani, ricordarci che questo tesoro ci viene da Nostro Signore Gesù Cristo stesso, e che Gli è costato il Suo Sangue. E’ riponendoci regolarmente davanti alla grandezza di queste realtà sublimi che le nostre anime rimarranno nell’adorazione in maniera abituale e si fortificheranno com’è necessario per il giorno della prova. Dobbiamo avere anche una cura crescente per l’educazione dei bambini. Bisogna avere ben in vista lo scopo che vogliamo raggiungere e non avere paura di parlare loro della Croce, della Passione di Nostro Signore, del suo amore per i piccoli, del sacrificio. Bisogna assolutamente che le anime dei bambini siano colte fin dalla tenera età dall’amore di Nostro Signore, prima che lo spirito del mondo possa sedurle e accattivarle. Questa questione è assolutamente prioritaria e se noi non riusciamo a trasmettere ciò che abbiamo ricevuto, è segno che non siamo sufficientemente convinti. Infine, noi dobbiamo lottare contro una certa pigrizia intellettuale: è la dottrina che dà la sua ragion d’essere alla nostra battaglia per la Chiesa e per le anime. Bisogna fare uno sforzo per attualizzare la nostra analisi dei grandi avvenimenti attuali, alla luce della dottrina perenne, senza accontentarci del pigro “copia-incolla” che – ancora una volta – internet sfortunatamente favorisce. La saggezza mette e rimette ogni cosa in ordine, in ogni momento, e ogni cosa trova il suo giusto posto.

Mons. Lefebvre

Che possono fare in modo particolare i fedeli?

Alla Messa, i fedeli riscoprono l’eco dell’effatà – ápriti – pronunciato dal sacerdote al battesimo. La loro anima si apre una volta di più alla grazia del Santo Sacrificio. Anche se molto piccoli, i bambini che assistono alla Messa sono sensibili al senso del sacro che manifesta la liturgia tradizionale. L’assistenza alla Messa feconda soprattutto la vita degli sposi, con tutte le sue prove, e le dà un senso profondamente soprannaturale, poiché le grazie del sacramento del matrimonio derivano dal Sacrificio di Nostro Signore. E’ l’assistenza alla Messa che ricorda loro che Dio vuole servirsi di loro come cooperatori della più bella delle sue opere: santificare e proteggere l’anima dei loro figli. In occasione del giubileo del 1979, Mons. Lefebvre ci invitò ad una crociata per la Messa, poiché Dio vuole restaurare il sacerdozio e, per mezzo di esso, la famiglia, oggi attaccata da ogni parte. Allora, la sua visione fu quasi profetica; oggi essa è divenuta una constatazione che tutti possono fare. Quello che prevedeva Mons. Lefebvre, noi oggi l’abbiamo sotto gli occhi: «Che ci resta dunque da fare, miei cari fratelli? Se noi approfondiamo questo grande mistero della Messa, io penso di poter dire che dobbiamo fare una crociata, appoggiata sul Santo Sacrificio della Messa, sul Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo; appoggiata su questa roccia invincibile e su questa fonte inesauribile delle grazie che è il Santo Sacrificio della Messa. E questo lo vediamo tutti i giorni. Voi siete qui perché amate il Santo Sacrificio della Messa. Questi giovani seminaristi, che sono a Ecône, negli Stati Uniti, in Germania, sono venuti nei nostri seminari proprio per la Santa Messa di sempre, che è la fonte delle grazie, la fonte dello Spirito Santo, la fonte della civiltà cristiana. E’ questo il sacerdote. Allora bisogna che facciamo una crociata, crociata appoggiata proprio su questa nozione di sempre del Sacrificio, al fine di ricreare la Cristianità, di rifare una Cristianità come lo desidera la Chiesa, come la Chiesa l’ha sempre fatta, con gli stessi princípi, lo stesso Sacrificio della Messa, gli stessi sacramenti, lo stesso catechismo, la stessa Sacra Scrittura»  (Omelia di Mons. Lefebvre in occasione del suo giubileo sacerdotale, 23 settembre 1979, Parigi, Porte de Varsailles). Questa Cristianità deve rifarsi nel quotidiano, con il compimento fedele del nostro dovere di stato, là dove il Buon Dio ci ha collocati. Certuni deplorano, a giusto titolo, che la Chiesa e la Fraternità non sono ciò che dovrebbero essere. Essi dimenticano che loro sono i mezzi per rimediarvi, al loro posto, con la loro santificazione personale. Là ciascuno è Superiore Generale… non c’è bisogno di un Capitolo per essere eletti, bisogna santificare ogni giorno questa porzione di Chiesa di cui siamo maestri assoluti: la nostra anima! Mons. Lefebvre proseguiva:  «Noi dobbiamo ricreare questa Cristianità, ed è a voi, miei cari fratelli, a voi che siete il sale della terra, a voi che siete la luce del mondo (Mt. 5, 13-14), a voi che si rivolge Nostro Signore Gesù Cristo, dicendovi: “Non perdete il frutto del mio sangue, non abbandonate il mio calvario, non abbandonate il mio sacrificio.” E ve lo dice anche la Vergine Maria, che sta a ridosso della Croce. Ella che ha il cuore trapassato, pieno di sofferenze e di dolori, ma anche pieno di gioia per l’unirsi al Sacrificio del suo Divino Figlio. Anche lei ve lo dice. Siate cristiani, siate cattolici! Non lasciamoci trascinare da tutte queste idee mondane, da tutte queste correnti che sono nel mondo e che ci portano verso il peccato, verso l’Inferno. Se vogliamo andare in Cielo, dobbiamo seguire Nostro Signore Gesù Cristo; portare la nostra croce e seguire Nostro Signore Gesù Cristo; imitarlo nella Sua Croce, nella Sua sofferenza e nel Suo Sacrificio». E il fondatore della Fraternità San Pio X lanciò una crociata dei giovani, delle famiglie cristiane, dei capi famiglia, dei sacerdoti. Egli vi insisteva con un’eloquenza che, quarant’anni dopo, ci tocca sempre, poiché vediamo quanto questo rimedio si applichi ai mali presenti: «L’eredità che Gesù Cristo ci ha lasciata è il Suo Sacrificio, è il Suo Sangue, è la Sua Croce. E questo è il fermento di tutta la civiltà cristiana e di ciò che vede condurci in Cielo (…) Conservate questo testamento di Nostro Signore Gesù Cristo! Conservate il Sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo! Conservate la Messa di sempre! E allora vedrete rifiorire la civiltà cristiana». Quarant’anni dopo, noi non possiamo deflettere da questa crociata; essa richiede un ardore ancora più esigente ed un entusiasmo ancora più ardente al servizio della Chiesa e delle anime. Come ho detto all’inizio di questa intervista, la Tradizione è nostra, pienamente, ma questo onore crea una pesante responsabilità: noi saremo giudicati sulla nostra fedeltà a trasmettere ciò che abbiamo ricevuto.

Signor Superiore Generale, prima di concludere, mi permetta una domanda più personale. L’incarico che Le è piombato sulle spalle lo scorso 11 luglio, non la spaventa?

Sì, devo riconoscere che ho avuto un po’ di paura e che ho anche esitato nel mio cuore prima di accettarlo. Siamo tutti dei vasi d’argilla e questo vale anche per chi è eletto Superiore Generale: anche se si tratta di un vaso un po’ più visibile e un po’ più grosso, ma non è per questo meno fragile. E’ solo il pensiero della Santissima Vergine che mi ha permesso di vincere il timore: io ripongo la mia fiducia solo in Lei, e lo faccio totalmente. Ella non è d’argilla, perché è d’avorio, Ella non è un vaso fragile, perché è una torre inespugnabile: turris eburnea. Ella è come un’armata schierata in ordine di battaglia, terribilis ut castrorum acies ordinata; e che per di più sa che la vittoria è il solo risultato possibile di tutte le sue battaglie: «Alla fine il mio Cuore Immacolato trionferà».

FONTE: fsspx.news/fr

TRADUZIONE: unavox.it

Il card. Siri: al Vaticano II ci fu un gruppo di “contro-impostazione”

A cura di Stefano Maria Pace e Paolo Biondi – Rivista “30 Giorni”, n° 6, Giugno 1989, pp. 70-75.

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